
L’opera d’arte al tempo della deresponsabilizzazione dell’artista
Ve la ricordate la statua della Spigolatrice? A Settembre, le autorità locali di Sapri, accompagnate dalla banda in festa che intonava l’Inno di Mameli, hanno svelato la scultura callipigia realizzata da Emanuele Stifano, che omaggia la protagonista della poesia di Luigi Mercantini, in ricordo dell’impresa di Carlo Pisacane e compagni sul territorio lucano. Le forme innecessariamente voluttuose della scultura, con indosso una sottoveste che lascia ben poco all’immaginazione, hanno scatenato un’aspra polemica.
Più di una voce si è alzata per denunciare il sessismo della rappresentazione della donna. Ancora una volta si sceglie di collocare nello spazio pubblico un corpo femminile sensuale e ammiccante, pensato per uno sguardo malizioso che in nessun modo può riconoscere il riferimento poetico dell’opera, troppo impegnato ad ammirare la curva delle natiche (letteralmente) scolpite.
Il sindaco di Sapri, ben noto storico e critico dell’arte presso se stesso, ha chiarito la situazione una volta per tutte, per sedare la polemica. Con il rinforzo delle spiegazioni dell’autore, ci conferma che la statua non è affatto sessista, e che anzi la malizia è negli occhi di chi guarda. Quella sensualità presunta non era affatto nelle intenzioni dell’autore, la colpa è di chi fruisce l’opera e pensa male.
L’arte è, insomma, un campo innocente, e non può esserci oscenità nella cultura; è lo sguardo perverso che la rende sporca e cattiva. Questa deresponsabilizzazione completa dell’artista ci permette di ripensare a una nuova e più pudica storia dell’arte, anche di quelli che ci sembravano espliciti riferimenti sessuali. Vi proponiamo qui alcuni esempi.
Due note a margine:
- Dedico questo articolo a coloro che, in risposta alla polemica, hanno esibito una trafila di capolavori senza veli, da Canova a Bernini, dimostrando la loro conoscenza della storia dell’arte che “da sempre ha esibito nudi sensuali, non vediamo dove sia il problema” (Propaganda Live, sto parlando anche con te). Qui ci spingiamo anche oltre la nudità dei corpi, con espliciti riferimenti sessuali, eppure niente ci ripugna come quel bronzo osceno di cui si è detto sopra. È chiaro che il problema non è il senso del pudore, ma la rappresentazione della donna nello spazio pubblico, costantemente svilita e stereotipata.
- Lo so che state già pensando all’Olympia di Manet, e a L’origine du monde di Courbet, malandrin*. Ma proprio perché ci sono riferimenti arcinoti di opere d’arte esplicite, li lascio a voi per la riscrittura corale della Storia dell’Arte Casta e Pura. Qui ho scelto di concentrarmi su alcune opere dal Novecento in poi, anche solo per presentarvi qualche novità.
Valie Export, Tap and Touch Cinema, 1968
Valie Export è ben nota per le sue azioni provocatorie, già dagli anni Sessanta. Qui incarna la sua interpretazione di “cinema espanso”, costringendo l’osservator* a confrontarsi con un vero corpo di donna – e non con le impalpabili immagini sullo schermo. L’artista indossa così un dispositivo che rende il suo busto una specie di scatola magica, con un sipario davanti. È possibile infilare le mani nella scatola, per palpeggiare il corpo della donna, per un tempo limitato stabilito da lei, accettando il fatto che l’operazione era praticabile solo con gli occhi di Valie Export ben piantati addosso, visto che la sua faccia si trovava giusto qualche centimetro più in alto.
Una riflessione performativa sull’oggettificazione del corpo della donna? Non direi, no. È che Vailie Export cercava disperatamente un* medic* per il controllo annuale al seno, e visto che la lista d’attesa era infinita, ha scelto una soluzione più rapida: scendere in strada.
Robert Mapplethorpe, Patrice, 1977

www.mapplethorpe.org
Sulla fotografia di Mapplethorpe sono stati già versati fiumi di parole di incantevole bellezza, il cui ricordo stronca sul nascere ogni mio tentativo dissacrante. Uno su tutti: il meraviglioso passaggio de La Camera Chiara di Roland Barthes, che traccia la distanza abissale tra immagine pornografica ed erotica, attribuendo alla seconda – e quindi a Mapplethorpe – il potere di trascinare l’osservator* fuori dalla cornice, animando il suo desiderio. Ma… non starete mica guardando lì, vecchie volpi che non siete altro? Malpensanti, l’arte non è mai sensuale, mai esplicita, mai volgare!
Si tratta chiaramente di uno scatto inviato al personal trainer per un check della muscolatura della coscia. Il sospensorio borchiato? Patrice – il soggetto della foto – se lo è infilato in fretta e furia perché serviva un indumento sufficientemente sgambato per fare bella mostra del quadricipite, mica per altro.
Thomas Ruff, Nudes, dal 1999

https://www.tate.org.uk/whats-on/tate-liverpool/exhibition/thomas-ruff/thomas-ruff-nudes
Dalla fine degli anni Novanta, Thomas Ruff ha iniziato a investigare il genere del nudo nell’arte. Era solo questione di tempo prima che il fotografo tedesco scoperchiasse il vaso di Pandora dell’Internet per trovare la moltitudine di immagini pornografiche di cui già allora era pieno il web. Affascinato da questi contenuti, ha scaricato alcune foto, ritoccandole un po’ per dare vita alla serie Nudes.
Il risultato isola e ingrandisce i soggetti, alterando certi toni ed esasperando i contrasti. Il tutto è avvolto da una coltre di nebbia che sbiadisce i confini delle immagini, che ora risultano incerte, sfocate. C’è chi ci legge un’interessante dicotomia tra l’immagine pubblica ed esplicita del porno online e l’intimo e privato del corpo, tra esibizione plateale e lirismo del desiderio.
Ma noi, che queste cose sporcaccione non le possiamo certo attribuire a un artista del calibro di Ruff, sappiamo benissimo che la serie Nudes è una riproduzione dei test della miopia degli studi oculistici: «signor*, cosa vede? Ah, una donna che si masturba? Mi dispiace, le devo prescrivere le lenti. E anche la recitazione del rosario, per scacciar via il pensiero peccaminoso».
Tracey Emin, Is Anal Sex Legal?, 1998

Okay, questa è difficile. Le scritte al neon lasciano davvero poco all’immaginazione, esprimendo degli statement nero su bianco. Rosa su bianco, in questo caso. Ma in realtà questo è uno dei casi più plateali di un refuso in un’opera d’arte.
Leggenda vuole che al tempo Tracey Emin fosse la fortunata padroncina di Daisy, un’elegantissima femmina di alano. Voleva tantissimo che la sua Daisy le desse dei cuccioli, e per questo si era iscritta in svariati forum cinofili per capire con discrezione se fosse possibile far accoppiare la sua cagnolina con un altro alano. Ma poi, parlare di sesso nei forum, era legale? Se lo chiedeva costantemente l’ingenua Tracey, che non bazzicava ancora il mondo del web.
Quindi scriveva nei forum: is ALAN sex legal? È legale il sesso tra alani? Le altre persone nei forum si prendevano gioco di questo suo scrupolo, al punto da farle pensare di rendere il motto un’opera d’arte, lei che spesso attinge dalle sue esperienze autobiografie per realizzare le proprie opere.
Purtroppo, nell’inviare il progetto alla ditta che fabbricava i neon, aveva spedito un messaggino frettoloso con un errore di battitura, e alla fine è uscito fuori: Is ANAL sex legal? La povera Emin per non fare figuracce ha iniziato a montar su una storia clamorosa sul sesso anale, sulla legalità di certi rapporti associati all’omosessualità maschile – allora bandita in numerosi Paesi – e ai tabù sessuali delle donne. Ma non preoccuparti, Tracey: una cerchia ristretta di noi sa la verità di te e Daisy.
Jeff Koons, Jeff and Ilona (Made in Heaven), 1990

Il re del kitsch non poteva mancare all’appello in questo carosello di artist* che potrebbero sembrare ammiccanti a un mondo di oscenità, ma che invece si salvano dal girone dei lussuriosi. In alcune sue opere l’apparente banalità nasconde in realtà un’esperienza estetica passionale e trascendentale, che intreccia l’arte con le sue esperienze di vita,
Il fatto che la serie di opere con l’ex moglie Ilona Staller – in arte Cicciolina – si chiami Made In Heaven allude proprio al processo di redenzione mistica a cui si sottopongono entrambi, mortificati dal peccato.
In particolare, in questa statuetta che potrebbe tranquillamente collocarsi in una vetrina in salone, tra la bomboniera di una comunione e un souvenir di viaggio, Jeff sta evidentemente suggerendo a Ilona di rimettere il vestito perché così rischia di beccarsi il raffreddore.
Protettivo, nell’attesa che Ilona si alzi, la copre con il proprio corpo, per tenerla al caldo. Jeff cerca così di guadagnarsi il suo posto in Heaven, con la sua buona azione quotidiana.
Marlene Dumas, Fingers, 1999

La pittrice, con una grande passione per la psicologia, realizza una serie di studi sul Test di Rorschach, in una rivisitata versione variopinta, ché il bianco e nero è ormai demodé.
Cosa vedi qui? Una farfalla? Una nuvola in cielo? Un ricordo d’infanzia? Una reinterpretazione su tela della pornografia di massa, come fosse un soggetto iconografico qualsiasi da cui attingere a piene mani, assecondando la tendenza pornografica a svelare tutto? Perché in questo caso potresti avere qualche problema, affett* da una forma acuta di Malizia Perversa. Non lo dico io mica io, eh, ma il test!
Simon Fujiwara, Boater, 2016

Un grazioso cappello di paglia appeso al muro: uno dei tanti risvolti che assume l’intreccio tra arte e moda, nella sua variante “outfit da scolaretto”. Certo, il copricapo in questione potrebbe o non potrebbe essere foderato all’interno da ritagli di riviste porno, ma visto che su internet non è facile reperire immagini che possano provare questa mia teoria, possiamo fare sonni tranquilli e immaginare la paglietta riempita di vignette recuperate da una collezione di vecchi “Topolino”.
Simon Fujiwara riporta nell’opera il suo ricordo autobiografico di quando, da giovane studente in collegio, foderava il cappello dell’uniforme scolastica di ritagli di giornali osé; un gesto di silenziosa ribellione all’obbligo di accogliere i docenti con un cerimonioso saluto in cui gli studenti si dovevano togliere il copricapo. L’occhio del critico malizioso ci potrebbe addirittura vedere una critica agli apparati di controllo a cui siamo sottoposti sin dalla tenera età, dove il desiderio proibito rappresenta la possibilità di evasione da queste rigide strutture che ci disciplinano la mente.
Il vago sospetto che questo sia il vero senso dell’opera mi è venuto quando nel 2019 ho visto il cappello esposto nella mostra torinese “Abstract Sex“.
Ma visto che parliamo della fodera fatta di ritagli di Topolino, sarà stata una mia svista: qui c’è solo un riferimento all’infanzia felice di un giovane scolaretto, in compagnia di Pippo, Pluto e compagnia.
Judi Werthein, Memorial for Witches and Bitches. 1 x 1 scale model for a public monument, 2017

Un monumento di un girarrosto, circondato da candele. Judi Werhtein omaggia il simbolo della sottocultura della nostra generazione: il kebab tattico delle fami impreviste. L’artista celebra così un tipico piatto mediorientale che ormai attraversa i continenti, accendendo un cero in suo onore. La presenza del kebab è incarnata dalla ballerina che danza sul girarrosto, mentre probabilmente già chiede se vogliamo aggiungere la cipolla o il piccante al nostro involto di pane arabo.
Certo, il titolo Witches and Bitches potrebbe far sembrare che Werthein voglia dedicare un monumento contemporaneo a tutte le donne che sono state derise, o peggio, uccise, con l’accusa di essere streghe o puttane. L’asta circondata da candele potrebbe essere un rogo del martirio, come anche l’occasione di una danza sensuale, come sembra suggerire la ballerina che attiva l’opera.
Ma no, in realtà il titolo si riferisce al fatto che dal kebabbaro si reca sempre una clientela molto eterogena, comprese le ragazze che collezionano cristalli in camera e le sex worker.
Rotimi Fani-Kayode, Sonponnoi, 1987

Le foto di Fani-Kayode esplorano la tensione tra sessualità, razza e cultura, a partire dalla sua esperienza di giovane nero omosessuale immigrato in Inghilterra. Per questo costella il corpo di punti colorati, come se avesse il vaiolo – e intitolando l’opera allo spirito associato alla malattia in alcune comunità africane.
L’immagine riflette lo stigma e l’alterità delle persone omosessuali, etichettate come “malate” nelle società omofobe. Nonostante la patologia, le candele collocate tra le gambe continuano ad ardere, il desiderio a brucia… Non posso raccontare l’interpretazione dell’opera? Ah no? *insert meme di Salvini sulle mascherine* E va bene.
Quest’opera è chiaramente un cosplay di una installazione ambientale di Yayoi Kusama, famosa per costellare oggetti e interi ambienti di pallini multicolor. Rotimi sperava che – come per le fiere del fumetto – andando travestito da opera d’arte, avrebbe pagato un biglietto ridotto.
Il metodo della Storia dell’Arte Casta e Pura © è replicabile all’infinito, per ripercorrere a memoria gli spazi dei musei evitando di incappare in pensieri illeciti.
I disegni di Schiele? Una visita dall’urologo.
Meret Oppenheim e la sua tazzina con pelo? Un prodotto di design.
Quell’opera di Dalì, Il grande masturbatore? È un errore nella didascalia. Sanno tutt* che in origine era Il grande Disturbatore!
Gira voce che il femminismo abbia intenzione di uccidere l’erotismo, o almeno così riportano i giornali che cercano di salvare in corner questa stramaledetta Spigolatrice. Vostro onore, mi dichiaro colpevole: il femminismo detesta l’erotismo, per questo ha predisposto per voi un pratico prontuario di difesa alle oscenità, in grado di depurare la mente da ogni sconceria. Poi mi ringrazierete!
Yasmin Riyahi
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