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Il 17 Dicembre è la giornata internazionale per porre fine alla violenza sulle/u sex worker. Le cose da dire sono tante, ma ci sarà qualcuna/u/o più capace di me che potrà dirle. È di questa giornata, però, che voglio approfittare per parlarvi di “Prostitute in rivolta”, un libro che vi sarà da strumento per la comprensione del fenomeno.
![prostitute in rivolta sfondo rosa testo: [...]Carol, Nevila, Sabah, Camilla, Vanesa, Marta… e tuttx voi di cui non conosciamo il nome. Vi portiamo tuttx nei nostri cuori, questo grido di dolore e di rabbia è per voi. Rest In Pride." comunicato di Ombre Rosse prostitute in rivolta la camera di valentina sfondo rosa
testo: [...]Carol, Nevila, Sabah, Camilla, Vanesa, Marta… e tuttx voi di cui non conosciamo il nome. Vi portiamo tuttx nei nostri cuori, questo grido di dolore e di rabbia è per voi. Rest In Pride."
comunicato di Ombre Rosse
prostitute in rivolta
la camera di valentina](https://lacameradivalentina.it/wp-content/uploads/2022/12/Carol-Nevila-Sabah-Camilla-Vanesa-Marta…-e-tuttx-voi-di-cui-non-conosciamo-il-nome.-Vi-portiamo-tuttx-nei-nostri-cuori-questo-grido-di-dolore-e-di-rabbia-e-per-voi.-Rest-In-Pride.-1024x562.jpg)
[note sul linguaggio dell’articolo: in linea con il linguaggio ampio adottato nel blog che priorizza il superamento del binarismo di genere, si utilizzano le desinenze -e/u/i (femminile, neutro, maschile); in riferimento al libro si utilizza -e/u con prevalenza del femminile]
“Prostitute in rivolta”, di Molly Smith e Juno Mac,
Edito e pubblicato nel Maggio 2022 da Tamù Edizioni è un libro che dovete tenere alla mano se vi interessano i diritti umani con approfondimento chiaro sulla questione sfaccettata e stratificata del lavoro sessuale. In Italia una pubblicazione del genere non è inedita in sé, ma soprattutto per l’opportunità tangibile che offre nel comprendere che quando si parla di sex work si parla soprattutto di diritti di migranti, si parla di povertà, di diritto alla casa, di frontiere, di violenza di genere istituzionalizzata e sistemica, di carceri e di violenza della polizia.
Tamù edizioni ha impacchettato un lavoro eccellente con una cura impeccabile, dalla grafica alla traduzione meticolosa di Chiara Flaminio ricca di note a pie’ pagina – per dare proprio tutti gli strumenti di comprensione, di modo da non lasciare nulla indietro -, ma anche nel coinvolgimento per la prefazione di Barbara Bonomi Romagnoli (giornalista professionista freelance e autrice, fra i vari, di “irriverenti e libere. Femminismi nel nuovo millennio”, Editori Internazionali Riuniti, 2014) e Giulia Garofalo Geymonat (ricercatrice universitaria – ha scritto “vendere e comprare sesso tra piacere, lavoro e prevaricazione”, Il Mulino, 2014) e nella postazione di Ombre Rosse, collettivo bolognese di sex worker e persone alleate. Un progetto corale per parlare di qualcosa che di corale tanto i problemi quanto le necessità di alleanze.
Anatomia dello stigma: sesso – lavoro – confini
“[…]Una sex worker può descrivere una brutta esperienza al lavoro come una violazione dei propri diritti lavorativi, come una violenza sessuale o più semplicemente come una giornata no. A prescindere, le testimonianze delle lavoratrici non sono dei simboli da destinare all’interpretazione delle femministe non sex worker, tantomeno all’interno di una campagna per la criminalizzazione della loro fonte di reddito.”
prostitute in rivolta, pg. 75]
“Prostitute in rivolta” apre con tre colonne su cui si regge il discorso sul lavoro sessuale: il sesso, il lavoro e i confini. Tre concetti che sono l’uno dentro l’altro e che, come un gioco a livelli, risolvendo un tranello recuperi solo la chiave per passare al successivo.
Si parte dal sesso e la questione è abbastanza semplice: lungi dal credere che risolvendo i tabù inerenti al sesso si risolvino tutti i problemi del lavoro sessuale (i primi sono una dimensione troppo individuale perché questa, da sola, possa bastare a sollevare i secondi); è utile smantellare la sessuofobia perché, così facendo, ci si disfa di filtri che altrimenti alterano e allontanano dal riconoscere le falle sistemiche.
Se il sesso è una cosa sporca, sporca è chi il sesso lo fa; figuriamoci chi lo vende. Sul terreno del sesso si giocano le partite di sovradeterminazione e astrazione della soggettività-sex worker che viene deumanizzata e messa da parte al momento di discutere di soluzioni che possano migliorarle la vita; “per il suo bene” vengono scritte leggi che criminalizzano la sua esistenza, promosse anche da femministe anti-sex work sprovviste di aderenza a questa realtà, come dimostrato da più di un episodio riportato all’interno del libro.
“La prostituta” diventa simbolo della sessualità femminile per intero, della donna oggettificata dall’uomo patriarca, dunque affine alla condizione di tutte le donne; il “good guy femminista”, il bravo ragazzo, si deresponsabilizza dalla sua egemonia di genere, la femminista “radicale” si illude di liberare la vittima perfetta; la punizione del patriarca sembra la soluzione per tutte, quindi sex worker comprese.
Stranamente, però, questo incanto dialettico svanisce quando, abbandonando il piano simbolico, ci si immerge nelle complessità che vincolano la vendita della prestazione sessuale alla sicurezza, alla povertà sistemica e alle discriminazioni razziali e queerfobiche.
Quando queste sono le premesse, il discorso del lavoro (e del suo mancato riconoscimento in quanto tale) è subito a seguire. Quello che Smith e Mac dimostrano nel capitolo dedicatogli è che non viene preso sul serio qualunque siano gli elementi a esso connessi: violenze? Te le cerchi; mancanza di diritti? Certo, con un lavoro così!; supporto, tutele? Perché, te le meriti?
Le stesse identiche incrinature del sistema capitalista e lavorista di cui facilmente si riconoscono i pattern, magicamente svaniscono sotto la pressione dello stigma che inchioda la/u sex worker a una condizione non solo precaria e pericolosa ma anche taciuta.
Se il lavoro sessuale non è un vero lavoro, non ci sono diritti, non è possibile denunciare e, d’altra parte, non ci sono mai davvero alternative: parlare di “vittime” e “nuovi schiavi” non ha ancora sortito alcun effetto reale, checché se ne pensi.
Sarebbe utile, per esempio, ripensare a una politica dei confini, facendo come segue: abolendoli. I contesti geopolitici nei quali la gente troppo povera per viaggiare legalmente (tra spostamenti e burocrazia) si ritrovano è niente più che un ricatto istituzionalizzato tra la vita e la morte. Mentre le leggi bollano gli esseri umani tra chi è illegale e chi no, la morsa in cui ci si ritrova è quella che spinge a condizioni miserabili e dentro la quale si sviluppa una fetta del lavoro sessuale.
“[…] l’utilizzo acritico del termine tratta svolge il lavoro ideologico necessario a dare un senso a queste contraddizioni; nasconde il danno prodotto dalle politiche anti-immigrazione, ovvero il traffico, consentendo ai politici che le implementano di presentarsi come eroi anti-tratta.[…]”
“[…] Difendere la prostituta migrante significa difendere tutte le persone migranti: è l’archetipo della migrante stigmatizzata. Le frontiere sono state inventate per proteggersi da lei. Non può esistere solidarietà nei confronti delle persone migranti senza solidarietà nei confronti delle prostitute, proprio come non può esistere solidarietà nei confronti delle prostitute senza solidarietà nei confronti delle persone migranti. Le due lotte sono inestricabilmente intecciate.”
[Prostitute in rivolta, pg. 145;149]
Una mappatura delle storie
“Prostitute in rivolta” procede approfondendo origini, sviluppi, illusioni, discriminazioni, vantaggi (quando ce ne sono) e svantaggi dei vari attuali modelli giudiziari e legislativi per tenere sotto controllo il lavoro sessuale.
La criminalizzazione parziale, la criminalizzazione totale, il cosiddetto “modello svedese” (o “nordico”), il regolamentarismo e la depenalizzazione totale vengono aperti, dissezionati, analizzati pezzo per pezzo, contraddizione per contraddizione, retorica dopo retorica per non lasciare più granché di dubbi riguardo la complessità e l’ampiezza dell’argomento.
“[…] Non esiste una versione progressista della criminalizzazione totale. Abusi quali pratiche poliziesche razziste, corruzione e violenze sessuali sono legate inestricabilmente alla vulnerabilità della sex worker che, una volta classificata come criminale, ha scarse possibilità di ricorrere alla giustizia.”
[Prostitute in rivolta, pg. 221]
Per fare ciò ci vengono mostrati nomi, luoghi, accadimenti, testimonianze dirette di sex worker e attiviste; dopo aver letto queste pagine è davvero difficile restare su un discorso blando e farcito di pregiudizi in cui agevolmente balliamo i nostri valzer paternalisti: i nomi – anche quando fittizi per tutelare la privacy delle persone direttamente interessate – restituiscono quella umanità che tipicamente verrebbe infantilizzata o patologizzata; i luoghi e le date in cui vengono incorniciati momenti di orribile violenza di qualche serial killer e/o della polizia, così come quelli in cui le prime proteste organizzate e autogestite di sex worker ci mostrano una realtà altrimenti opacizzata da titoli sensazionalistici; le testimonianze dirette non ci danno lo spazio di tessere interpretazioni: sono le loro parole, punto.
Una piccola digressione la dedicherei al modello svedese, il modello “nordico” che “criminalizza l’acquisto di prestazioni sessuali e punisce le terze parti (manager, autisti e padroni di casa, depenalizzando sulla carta chi vende sesso” [ibidem], perché sentiamo la puzza fino a qui, dopo che il ddl Maiorino è stato presentato al governo italiano che, in buona sostanza, rimarca questo modello (nonostante il governo in cui è stato presentato il ddl sia cambiato, fidatevi se vi dico che ne sentiremo parlare di nuovo e soprattutto prepariamoci per contrastare il peggio).
“[…]Sosteniamo semplicemente che, se si vuole ridurre la prostituzione, è necessario trovare un modo per farlo che non inasprisca la precarietà di persone già profondamente marginalizzate. Le attiviste di “stop alla domanda” scelgono a piacimento di vedere e non vedere il problema: citano la povertà come motivo principale dell’entrata delle donne nell’industria del sesso, considerandola allo stesso tempo un fattore irrilevante nelle riflessioni sull’impatto delle loro “soluzioni” politiche”.
[ibidem, 255]
L’obiettivo del modello nordico è di “ridurre la domanda” con la penalizzazione sia del cliente che di eventuali manager dellu sex worker, puntando il dito ai continui squilibri di potere all’interno della contrattazione del servizio sessuale.
Questo modello giuridico si basa sull’idea che la sex worker è sempre vittima e il cliente è sempre carnefice; ne consegue che punendo la domanda si libera la prima dalle grinfie del secondo; come “Prostitute in rivolta” avrà modo di dimostrarci più e più volte, se solo superassimo il binomio vittima-carnefice come uniquum e ci concentrassimo nel riconoscere il lavoro sessuale per quello che è – un’esigenza ‘ppe campa’ tra le opzioni scarsissime che ti ritrovi ad avere quando stai ai margini della società, né più e né meno -, capiremmo che penalizzare la domanda di una fonte di reddito non renderà la vita più facile a chi ci si appoggia.
Ne va di mezzo la sussistenza, la sicurezza sul lavoro, il margine di contrattazione e gestione di orari e clienti, la possibilità di avere una casa e di mantenere una certa autonomia. Semplice così, comprensibile per qualunque altro lavoro di merda, eppure:
“[…] I sostenitori del modello nordico hanno ragione ad affermare che il cliente beneficia di un’enorme disparità di potere; quello che mancano di considerare è che la criminalizzazione del cliente non fa che aumentare quella disparità.[…]
[ibidem, pg.252]
Io non temo il femminismo carcerario in sé, io temo il femminismo carcerario in me [semicit.]
Abbiamo fatto una veloce panoramica del contenuto all’interno di “Prostitute in rivolta”; è arrivato il momento di dare un’occhiata al contenuto dentro di noi, prima di leggere questo libro.
Ho amato queste pagine perché mi hanno messo terribilmente in difficoltà e non sempre, tra l’altro, mi è stato facile accettarlo. La dimensione digitale in cui ho collezionato tutti gli spunti di riflessione – che poi in seguito ho approfondito – mi hanno preparata a una decisa posizione ideologica solo in piccola parte, superficiale. Sì, mi ritengo una femminista sì, anticapitalista sì, anti-imperialista, sì anti razzista sì, ma fino a quale prossimo bias?
Il mito della punizione e della giustizia che passa dalle carceri è sorretto da un sistema squilibrato e coercitivo; le persone che si trovano ai margini della società, invisibilizzate, penalizzate e discriminate sono le stesse al contempo costrette a una vita illegale e le uniche punite per questo.
Siamo cresciute/u/i con l’idea che punire il singolo cattivo risolva tutta la cattiveria, siamo infarcite/u/i di racconti di genere da ogni dove, l’eroe e l’antagonista e compagnia fuffante; è facile quindi cedere a quel femminismo lì, illudendosi di sapere cosa sia meglio per una/u sex worker pur non avendo mai intrapreso mezza giornata nelle sue scarpe, soprattutto quando la controparte della disputa è il patriarcato incarnato nel pappone o nel cliente.
Se sul corpo della/u sex worker si tessono tanti archetipi quante sono le narrazioni di cui ci nutriamo in questo colabrodo che è “l’opinione pubblica”, è proprio perché concretamente sul corpo e l’identità della/u sex worker si attraversano questioni di razzismo, di povertà salariale, di violenza di genere, di politiche dei confini, di reddito universale, di diritto alla casa, di migrazione, di tossicodipendenza, di salute ed educazione sessuale, di stigma e di pregiudizi.
Se serve un appiglio per approfondire il perché dell’abolizione delle carceri e dello stato di polizia, questo libro vi darà una spinta, come l’ha data a me, attraverso la lente del lavoro sessuale il quale, grazie ad altre sorelle prima di me, e per vie traverse, ho sentito mio. Consiglio anche a voi, quindi, di intraprendere questa lettura sapendo di andare incontro a una messa in discussione più grande di come avreste potuto prevedere all’inizio.
“[…] In un sistema così strutturato, viene spontaneo chiedersi se e in che termini si possa parlare di scelta. Si sceglie davvero di migrare in un sistema capitalista in cui la povertà di paesi interi è funzionale alla ricchezza di altri? Si sceglie di rivolgersi a chi svolge il traffico di esseri umani quando praticamente non esistono vie legali di accesso all’Europa? Si sceglie di concedere prestazioni sessuali quando l’alternativa è essere rispedite dalla frontiera al paese di origine?[…] Farsi queste domande è necessario per capire la radice reale del sistema violento della tratta: se a operarlo sono gli sfruttatori, il mandante è la frontiera[…].”
[dalla postfazione di Ombre Rosse, Prostitute in rivolta pg. 392]
Riflettevo sull’immaginario con cui mi sono formata e che mi ha accompagnato per moltissimo tempo prima che l’incontro casuale con i femminismi iniziasse ad agitare un po’ tutto: i tribunali all’americana, la giustizia che ha sempre la meglio e sempre col volto bianco, la romanticizzazione della polizia, il mito della “mela marcia” di un sistema intrinsecamente e indiscutibilmente buono, la tutela dei giusti costi-quel-che-costi.
È da un po’ di tempo che (mi) rifletto sullo “specchio della puttana” e ho il privilegio di farlo da un posizionamento simbolico che diventa pretesto di una esplorazione del tutto personale. Però, mi dicono Mac e Smith, questo non basta; per dirla tutta, non è neanche the fucking bare minimum, il minimo sindacale per un’alleanza.
A replicare le dinamiche patriarcali ci vuole un battito di ciglia quando si tratta di sessualità, pur da sedicenti femministe; quello che mi sfuggiva profondamente era vedere la panoramica nell’insieme.
“[…] Da sex worker e da femministe, non accettiamo le frontiere e la loro imposizione come istituzioni inevitabili o immutabili. Ci stiamo battendo anche noi per un femminismo radicale che abolisca i confini, il capitalismo e l’industria del sesso senza arrecare danni alle sex worker.[…]”
Oggi ricorre la giornata per porre fine alla violenza sulle/u sex worker. Questo 2022 che va per chiudersi ci ha orripilato con una sequela di femminicidi di sex worker – e a chiamarli col loro nome, “femminicidi”, non sono certo le infografiche carine femministe su instagram, ma altre sorelle. I killer, però, sono gli ultimi che devono preoccuparci e indignarci: serve uno sguardo a chi è loro complice.