Storie di Strada 2- di necessità, lavoro (sessuale)

Alina, Albania

È una donna robusta di mezza età con un viso dolcissimo. La sua storia è piuttosto pesante. Al momento fa due lavori perché, oltre a se stessa, deve mantenere suo figlio, che soffre di una grave patologia.

«Sono stanca, ma devo mettere via i soldi per pagarmi il viaggio per l’Ucraina. Sai, andata e ritorno per due persone costano molto».

Sharon, Nigeria

Sharon è una ragazza molto simpatica. Vive in italia da 3 anni e riesce ad imitare l’accento bergamasco piuttosto bene. Ne ignoriamo la ragione.

“Ho iniziato questo lavoro da poco, luglio. Non mi piace, ma devo pagare l’affitto e l’università alle mie sorelle. Loro vivono in Nigeria e studiano tutte e due. Sai, le tasse costano tanto in Nigeria. Io non ci voglio tornare, voglio stare qui.”

Rosy, Albania

Ve le ricordate il duo invincibile Paola e Chiara? Ecco, Rosy è la mora, Paola. È una donna albanese piena di forza e ironia.

«Come è oggi?» le chiedo.

«Mah, io e Roberta (la bionda, Chiara) non lavoriamo mai cazzo. Perché io e lei non siamo come le altre. Siamo stronze. Non diciamo “Amoreee ciaooo, come sei bello!”. Andiamo dirette: “Bocca figa 50”».

«Ma dai, magari prova ad essere più gentile…» le consiglio.

«Ma vaffanculo. Non siamo fatte per questo lavoro noi. Lo facciamo perché abbiamo bisogno di soldi. Anche le italiane lo fanno sai? Se c’è bisogno, c’è bisogno».

Jennifer, Nigeria 

L. ha una trentina di anni ed è quasi sempre elegantissima. Vive in Italia da molti anni ed ha appena ottenuto il permesso di soggiorno. Di solito è molto allegra, ma oggi è piuttosto triste. 

«Ti devo chiedere una mano» mi dice. «Voglio tornare in Nigeria e aprire qualcosa con i soldi che ho guadagnato qui».

Patty, Perù

La sua storia come lavoratrice sessuale inizia in Argentina. Sentiva di “volere di più”. Ed è qui che rintraccia un vecchio amico travestis che le insegna a putear.

«Affittai una stanza lì vicino e poco a poco imparai a lavorare in strada, a conoscere i clienti. Iniziai a risparmiare soldi per trasformarmi. Poco a poco mi operai..mi feci il naso, il viso, il corpo, tutto praticamente. Però ho bruciato le tappe tappe, incontrato i vizi…perché la calle te enseña todo».

«E ti divertivi?»

«All’inizio mi piaceva sì, perché era qualcosa di nuovo. Ti dico, io venivo dal Perù e vedere tanti ragazzi stupendi qui mi sentivo in paradiso. Mi pizzicavo per vedere se stavo sognando. Quindi all’inizio mi divertivo e poi…diventa più un’abitudine».


Il lavoro sessuale è un mezzo, (quasi) mai un fine. È sempre temporaneo, non definitivo.

Tutt* ci muoviamo in una o più direzioni, abbiamo dei sogni, delle necessità e degli obblighi a cui, ogni giorno, dobbiamo far fronte. E questo è un dato oggettivo, o almeno lo è per la maggior parte della popolazione.
Quello che è soggettivo è il come. Il più delle volte, a meno che non facciamo parte di una ristretta nicchia di privilegiat*, decidiamo come pagare le bollette sulla base delle risorse di cui disponiamo in quel preciso momento storico e di quello che siamo disposti a fare.

Mi spiego meglio. Ancora una volta, partirò da me, dalla mia storia. Non tanto perché mi diverta spifferare i fatti miei, quanto piuttosto perché credo sia più semplice e onesto partire da sé, e anche perché sono una buona e brava femminista (pro-sex, si capisce!)

Prima di iniziare l’università non avevo idea di quello che volevo fare ‘da grande’, non sapevo fare quasi nulla tranne i dolci, quelli sì che mi venivano bene!

Le mie aspirazioni erano piuttosto basse e i miei obiettivi si riducevano a guadagnare qualche centinaia di euro. Così, trovai lavoro in una gelateria di paese, che segnò la mia dipendenza dal gelato al pistacchio e il feticcio delle palette. Non ci avete mai fatto caso? Acciaio brillante, punta piatta e arrotondata e manico scanalato…

Ehm ehm, ma ricomponiamoci.

Dopo un colloquio che aveva più l’aria di essere un interrogatorio poliziesco, iniziai quella che doveva essere la mia settimana di prova: 10-12 ore al giorno, ovviamente non pagate, çà va sans dire.
Finita la settimana di prova, i signori del gelato avevano deciso che in fondo me l’ero meritato: assunta! «Siii, potrò mangiarmi tutti i gelati che voglio!» pensai ingenuamente.

I mesi successivi furono un ripetersi di una serie indimenticabile di ordini:

Stai dritta, sorridi, sii puntuale, se ti chiamo vieni, se mangi paghi, non stare mai ferma, pulisci, intrattieni, straordinari gratis, nascondi i capelli, no orecchini, no bracciali, spersonalizzati.

Ovviamente c’erano anche dei lati positivi, tutto sommato non ero in miniera o a raccogliere pomodori a 2,50 euro l’ora. Di certo però non posso dire di essermi sentita rispettata e considerata, come non posso dire che pulire i pozzetti e sbrinare le carapine fosse il mio grande sogno. Eppure ero lì.

L’università la volevo pagare e gli Spritz all’osteria pure.
In quel momento, a 18 anni, sulla base delle poche risorse che avevo, la gelataia mi era sembrata l’alternativa più convincente.

La mia è una storia piuttosto banale. Sono più che sicura che tutt* voi avrete vissuto (o state vivendo) il “periodo gelateria”, o meglio detto lavoro in cui vi siete sentit* sminuit* e poco apprezzat*.

Ed è in questo contesto di necessità e doveri economici e sociali che si inserisce il lavoro sessuale.


Le persone che decidono di dedicarsi al Sex Work per un periodo più o meno lungo, hanno ben chiari i loro obiettivi, che non sono poi tanto diversi da quelli di qualsiasi altra persona: mantenere se stess* e le famiglie di origine, garantire una vita dignitosa alle proprie figlie e figli, aprire delle attività, pagarsi gli studi, iniziare un processo di trasformazione come nel caso di Patty,  e potrei continuare a lungo.[1]

Il lavoro sessuale diventa quindi un mezzo temporaneo per raggiungere quegli obiettivi. Semplice. Pratico. «Ma gli piace?» potrebbe chiedersi qualcuno. Non lo so, dipende, ma soprattutto non è questo il punto.
«Perché questo e non altro?» potrebbe chiedersi qualcun altro. Dipende. Soldi veloci (non facili) sono sicuramente un’ottima ragione. Ma ancora, non è questo il punto.

Perché chiedersi le ragioni per cui lo fanno o se provano piacere nel farlo se le stesse domande non ce le porremmo per qualsiasi altro mestiere?

«Perché hai deciso di fare la barista?» come suona? Strano, no?

Invece, domandare «perché fai la prostituta?» ci sembra più accettabile, plausibile, quasi scontato. È come se non riuscissimo ad essere razionali quando si parla di prostituzione, e più in generale di lavoro sessuale.

Diventa subito una questione morale. E la morale ci annebbia, non ci fa andare oltre una rappresentazione pietistica, in cui il lavoro sessuale è sempre una scelta subita.

Ci sembra quasi più semplice pensare che siano tutte vittime. Più complesso e faticoso sarebbe spogliarci degli istinti moralistici che non ci permettono di comprendere un fatto tanto semplice quanto rivoluzionario: la strumentalità e la praticità del Sex Work.

In quest’ottica,  il lavoro sessuale diventa un mezzo, una della tante alternative possibili. Ma per comprendere questo aspetto è necessario fare un altro passo avanti: occorre deromanticizzare il lavoro sessuale, e quindi il sesso.

La sessualità ha assunto nel tempo valori e significati che sono andati ben oltre la sua funzione riproduttiva, per diventare un ambito fondamentale in cui si gioca il benessere dell’individuo.

Oggi, sempre più persone parlano di sesso, sfidano tabù, esplorano i “non detti”. E questo è soprattutto un bene — non fraintendetemi — ma, come tutte le cose, presenta della criticità. La popolarizzazione dei discorsi sul sesso potrebbe andare di pari passo con una sua sacralizzazione, e questo, a mio avviso, comporta non pochi problemi.

Il sesso è un’attività piacevole, così come lo è passeggiare al parco la domenica mattina o mangiare il fegato alla veneziana. Il fatto che per alcune persone il sesso costituisca un ambito di primaria importanza in cui esprimersi ed esplorare il proprio (ben)essere, non significa che sia così per tutt*, e soprattutto, la stessa persona può fare sesso con un’intenzione diversa a seconda del contesto.

Il sesso può quindi farsi strumento ed avere una funzione meramente lavorativa.

Lo so, non è semplice. Ma comprendere la pluralità delle funzioni del sesso è il primo passo per andare oltre stereotipi e pregiudizi che avvolgono il lavoro sessuale.

È solo deromaniticizzando e demistificando il sesso che potremo andare oltre la morale e il giudizio. È abbandonando ogni istinto moraleggiante che potremo portare la riflessione ad un altro livello: più razionale, e se vogliamo, più umano.

NB: Queste riflessioni nascono dalla mia particolare esperienza personale e professionale. Pertanto, rappresentano il mio punto di vista e non la verità assoluta, ammesso che esista.

[1] È importante ricordare che trattandosi di un lavoro che investe il corpo e la sessualità, vi sono poi ragioni che hanno più a che fare con l’esplorazione di sé e il superamento dei propri limiti, piuttosto che on la (sola) necessità economica.

Giulia Zollino

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