Velo, sVelo, riVelo: il segreto del tessuto

Quando si dice “vedo, non vedo”: basta cambiare la “d” con la “l” e l’effetto erotico ottenuto è lo stesso.

Tutta l’arte è un’operazione di sublimazione; può esimersi, specificatamente, l’arte erotica? No di certo.

Con i giochi come “Trova L’Erotico” ci stiamo allenando a riconoscere i messaggi subliminali nascosti in oggetti, gesti e dinamiche compositive all’interno delle opere d’arte. Similarmente, oggi vi racconto del velo, un tessuto del quale ruolo è sempre stato più quello di fievole contentino al pudore che effettiva copertura. E questo, gli artisti, lo sapevano fin troppo bene.

La Fornarina, 1520, Raffaello

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La Fornarina, 1520, Raffaello

Di questa preziosa musa conosciamo le leggende: figlia di un panettiere (“Fornarina” now you got it), ha fatto così precisamente breccia nel cuore del pittore, che non se ne andò più, fino alla fine dei suoi giorni. Il loro amore fu talmente forte che neanche Picasso, secoli dopo, ne restò indifferente, dedicando loro uno dei suoi disegni erotici.

Dal quadro, lei ci guarda di tre quarti, come se, durante la posa, qualcunx tra noi avesse sospirato, distraendola. Dietro di lei una fitta piantagione di mirto, pianta dedicata ad Afrodite; in testa un turbante (ché andava di moda, nel ‘500, emulare Odalisca, diva erotica).

Margherita Luti, questo è il suo nome, risplende di luce. Intuiamo che il velo le attraversa la schiena, perché i due lembi cadono su entrambe le braccia. Con la mano destra sembra volersi coprire e Raffaello immortala il momento in cui la mano incornicia il seno, tondo e voluminoso; felice coincidenza! diremmo. Il velo è diafano, lo sguardo complice: abbiamo il suo permesso per guardare.

Venere, 1532, Lucas Cranach il Vecchio

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Venere, 1532, Lucas Cranach Il Vecchio

Non ci distacchiamo che di un decennio appena da Raffaello, con questo suo collega tedesco. Cranach stravolge di parecchio le rappresentazioni tradizionali che vedono come protagoniste la Dea dell’amore e dell’eros: stavolta è da sola, completamente. Niente Cupidi, niente fiori, niente di niente. Sfondo scuro, un suolo curvo che mi ricorda i crateri lunari, il silenzio solenne in cui lei, figura dall’anatomia gotica (allungata, molto morbida) si innalza.

È nuda, vestita solo di gioielli che ne definiscono il suo stato sociale. Ad accompagnare il suo corpo un velo che, stavolta, l’attraversa davanti. La sua posa a “s”, di vago abbandono, si incrocia con la linea trasversale che il velo le disegna, formando una curva discendente che guida il nostro sguardo dal braccio destro a quello sinistro, dove la curva massima poggia giusto sul pube di lei.

Anche lei ci guarda, consapevole della sua bellezza. Ha un che di malizioso che sembra sussurrarci “so che non potete resistermi”.

Inverno, o “La Freddolosa”, 1767, Jean Antoine Houdon

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La Freddolosa, 1787, Jean Antoine Houdon

Come Cranach il Vecchio, anche Houdon si prese la libertà di stravolgere le rappresentazioni (in questo caso allegoriche) per piegarle al suo volere erotico. L’Inverno, per tradizione, è raffigurato come un vecchio (o una vecchia) vestito di pochi stracci, intento a raccogliersi e coprirsi. Houdon, da gran furbone, ruppe la tradizione mettendo come modella una giovine; non le vediamo il volto, ma si intuisce che è di tenera età (tra l’altro, per quanto gli strati di abbigliamento siano sempre pochi, vi assicuro che difficilmente viene lasciata scoperta proprio quella zona lì, eh!).

La Freddolosa ha le gambe chiuse e l’anca leggermente inclinata, una posa che richiama le raffigurazioni delle giovani simbolo di purezza e castità. 
La narrazione è stravolta, l’eccitazione è servita: non più allegoria dell’Inverno, ma ritratto di una giovane vergine.

Il bronzo, per la scultura, non è, come le altre pietre e minerali nobili, un materiale che si manipola per sottrazione (togliendo l’eccesso fino a ottenere la figura), bensì per fusione. Diventa, dunque, difficile dare l’idea di leggerezza e trasparenza. Quello che copre la giovane misteriosa potrebbe essere un velo, come una coperta di lana, da quel che ne sappiamo. Ma dato il trick seminato da Houdon, mi piace pensare che quello sia un velo e che la modella altro non sia che un’altra Venere pronta a farsi Primavera, superato l’Inverno.

Giovane alla toeletta, diciannovesimo secolo, anonimo

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Giovane alla toeletta, diciannovesimo secolo, anonimo

Questo doveva sicuramente essere destinato a un giornaletto porno del tutto privato e, com’era comune per le stampe su carta di riso per quel particolare utilizzo, non se ne conosce l’autore. Oggi sappiamo che appartiene alla collezione privata di arte erotica cinese del signor Ferdinand M. Bertholet. Non si conosce l’autore, è vero, ma l’acconciatura e il mobilio permettono di collocare il ritratto nel diciannovesimo secolo, in Cina.

La veste della ragazza, trasparente, non è però il catalizzatore dell’erotismo come nelle altre opere. Il velo, in questo caso, si contrappone al vero elemento erotico del ritratto (e, in un certo senso, lo aiuta ad emergere): i piedi, racchiusi nella tipica bendatura chiamata “fiore di loto”.

La ragazza, forse una prostituta, ha un’aria sognante e un sorriso frivolo. Anche lei, come le altre protagoniste di questo viaggio, è nuda e anche lei si prende gioco del nostro pudore, portandosi distrattamente la veste al torace, con la mano destra, come se servisse davvero a coprirla. Alla sua sinistra, una pianta di orchidee e una bella candela accesa (perché sia mai che manchino le allusioni?!).

“La visione notturna di una donna avvolta nei veli ricorre sovente in un uomo molto giovane. Egli cerca di nascondere il suo ardente desiderio amoroso per un certo timore che egli ha del rapporto con la donna.”[1]

Un ricamo diafano, un tessuto leggero, una veste scomposta; il velo è un oggetto che scopre, più che coprire. Tutti i panneggi negli affreschi, nelle pitture e nelle sculture sono sempre serviti a nascondere i genitali; Eppure, con i loro volumi e colori sgargianti, senza entrare nell’erotismo, altro non hanno fatto che evidenziare di più dove non guardare.

Nel caso delle opere erotiche, con predominanza di soggetti femminili, la pseudo pudicizia è ancora più sfrontata: tanto più si assottiglia lo spessore del tessuto, tanto più diminuisce la vergogna.


Vi è capitato mai di sfogliare una gallery di intimo sexy femminile e pensare “ma se deve mostrare così tanto, che senso ha? Tanto vale restare nude!”? Magari pure con un certo piglio di rimprovero? A me sì, ovviamente, perché la montagna di cose che non capivo era davvero alta ed ero una gran stronza.

Sorvoliamo in blocco le possibili risposte sull’autodeterminazione e l’autostima sessuale (che possono indurre a una grande libertà di scegliere di vestire – o non vestire – proprio come il beneamato ceppo che ci frega) e soffermiamoci su quelle scaturite dal dialogo tra la storia dell’arte e quello della moda. Il pizzo, i merletti, il tulle, la seta, così come i veli che abbiamo visto in queste opere, hanno in comune l’arte del mostrare e non mostrare; un design dell’evocazione, del sollecito. La nudità? Quanto basta per farti capire con chi hai a che fare. La coprenza? Quanto basta per farti capire cosa devi immaginare. Infatti, quando parliamo di cliché di abbigliamento intimo, è di immaginario sessuale che parliamo. Oggi scopriamo che ha origini antichissime.

Indossateli pure, allora, questi cliché, se vi aggrada, se vi fanno stare bene con voi stessx: Non è detto sia un male (finché tutto è fatto con consapevolezza e non forzatamente). Dovete piacervi, non compiacere. È così che, inaspettatamente, mentre siete impegnatx a sentirvi sexy, scoprite che potete anche sentirvi Arte.

Fonti:
The Art of Erotic, Phaidon edizioni
www.getdailyart.com
[1]“dizionario erotico dei sogni”, Clara Schiavolena, 1979, Bietti edizioni

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